Il Taiji Quan (o Tai Chi Chuan) è diventato “di moda” in Occidente a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, spinto anche da quell’onda di “contro-cultura” rappresentato dal cosiddetto movimento “new age”.
Questa anomala diffusione ha contribuito a svilire l’insegnamento della disciplina, declinandola spesso in “danza” dal vago sapore sacrale e/o ginnastica “dolce”.
Anche l’aspetto meditativo è stato enfatizzato ma la “sostanza marziale” è stata sempre più sottaciuta o, addirittura, negata (non essendo in linea con ideali confusamente salutistici e… pacifisti).
Ora, abbiamo già detto in un post del 10 agosto – QUANDO IL TAIJI ERA… UN’ALTRA COSA (OPPURE NO!) – che l’enfasi posta sugli effetti salutari del Taiji risale già alla prima ondata di divulgazione avvenuta nella stessa Cina, nel corso degli anni venti/trenta.
Puntare sugli innegabili benefici della pratica è stata una mossa vincente per quanto riguarda la diffusione della disciplina.
Il problema è che questa prospettiva, quella meramente “igienica”, è diventata poi preponderante, a volte l’unica.
E il Taiji, soprattutto nell’immaginario comune di chi pratica arti marziali, ha via via acquisito l’etichetta di disciplina “frou-frou”, buona sola per rilassarsi e mantenersi in buona salute. Mentre invece il Taiji potrebbe essere prezioso per chiunque, anche per chi pratica un’altra arte marziale, per chi è impegnato in uno sport da combattimento (lotta, pugilato, MMA) o “di contatto” (rugby, football americano ecc.).
Il Taiji, infatti, può far conoscere a tutti “la via” per utilizzare al meglio tutte le proprie risorse psico-fisiche, focalizzando l’attenzione su: rilassamento, struttura, connessione, forza integrata, intenzione (che non è semplice “determinazione” o “spirito combattivo”).
Il luogo comune che il Taiji Quan sia marzialmente inefficace è poi facile da sfatare. In che modo?
Semplice: facendo capire alla gente che la nostra disciplina non è quella “cosa” propinata in tanti corsi tenuti da insegnanti impreparati o improvvisati, che si compiacciono del loro approccio “esoterico” e “mistico”, e che nascondono la propria incompetenza riempiendosi la bocca di termini incomprensibili (anche a loro). Pseudo insegnanti che non dimostrano mai (perché non possono) le capacità che la corretta pratica avrebbe dovuto far loro acquisire (anche quelle spiccatamente marziali).
Il Taiji non è quello dei corsi in cui la “lezione tipo” si condensa esclusivamente nell’esecuzione di una forma asfittica e stereotipata… e nulla più!
Se si vuole capire come e perché il Taiji funziona come arte marziale, oltre che come straordinario mezzo per mantenersi in buona salute, bè… forse è meglio scegliere una “grande scuola”, con un grande “caposcuola” e che segua un indirizzo magari… un po’ più… “laico” e molto più “concreto”.
Una scuola dove, pur muovendosi didatticamente nel solco della tradizione, non si decantino o si promettano, semplicemente a parole, i “prodigi” di quest’arte marziale ma si dimostrino concretamente e si insegnino utilizzando concetti comprensibili a tutti, compresi quelli della fisiologia e della biomeccanica, evitando di far ricorso soltanto a “metafore evocative”.